martedì 29 luglio 2014

Comunicato stampa sui fatti accaduti alla caserma Bandini di Siena

L' A.N.P.I. regionale Toscana, venuta conoscenza che nella caserma Bandini di Siena  un gruppo  di circa trenta soldati del 186* reggimento Folgore  alla presenza di civili e di un reduce della battaglia di El Alamein  ha cantato un inno fascista ed ha concluso la propria "esibizione" al grido "A noi" , di chiaro riferimento alle gesta  degli appartenenti alla repubblica sociale di Salò,

esprime FERMA CONDANNA  per l'accaduto e si augura che gli organi del Comando di Brigata assumano provvedimenti "esemplari" non solo nei confronti di  coloro che sono stati protagonisti del fatto,ma per far comprendere che l'Esercito della  Repubblica Italiana nata dalla Resistenza non tollera e non tollererà atteggiamenti che recano offesa alla Nazione intera e sopratutto alle migliaia di soldati e partigiani che hanno combattuto,taluni sacrificando le proprie vite,per sconfiggere il fascismo e far nascere una Repubblica,democratica, pacifica libera ed antifascista.
Chiediamo che le assemblee elettive di ogni ordine e grado della Toscana intera si pronuncino , nelle sedute pubbliche dei propri organi ,per rappresentare lo sdegno e la condanna di tutti i cittadini democratici della nostra Regione.

Ai protagonisti del fatto,che non è un  "gesto stupido" ma l'espressione di chi ancora  soffre di "nostalgie" l'A.N.P.I. fa sapere che saremo sempre vigili ed attenti a che non si cerchi di infangare uno degli episodi più luminosi della Storia d'Italia  e che saremo sempre presenti a condannare ogni gesto ed azione che voglia ricordare un passato con il quale il Popolo Italiano  a chiuso i conti il 25 Aprile 1945, giorno della Liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e dall'occupazione Nazista


A:N:P:I: Regionale Toscana   il vice Presidente -vicario- Ennio Saccenti e tutta la Presidenza Regionale

giovedì 10 luglio 2014

LA RIFORMA DEL SENATO E' UN TROFEO ?

Dal sito ANPI Nazionale un commento del presidente Carlo Smuraglia, sul dibattito in corso sulla riforma del Senato.

La riforma del Senato, per come si sta portando avanti, mi pare sia mossa da un problema di immagine; alle priorità effettive si antepone l’intento di portare a casa al più presto il “trofeo” del Senato “riformato” per esibirlo in Europa a riprova del decisionismo e della autorevolezza governativa. Noi pensiamo che sia giusto aspirare ad una forte credibilità in Europa, ma non a qualunque prezzo. È giunto il momento di stabilire con razionalità quali sono le vere priorità di un Paese che attraversa una grave crisi economica e sociale e cerca di uscirne. La differenziazione del lavoro delle due Camere deve essere realizzato, assieme a una buona legge elettorale, in tempi ragionevoli e con modalità conformi alle linee e ai principi costituzionali.
Finora, chi contestava il progetto governativo di riforma del Senato, veniva definito un “conservatore”. Una definizione che non ci piaceva, anche perché non corrispondeva a verità (ci siamo sempre dichiarati d’accordo per una riforma del Senato, che non alterasse i delicati equilibri previsti dalla Costituzione e lasciasse a questo importante organismo parlamentare un ruolo elevato, da “Camera alta”).
Adesso, però, si va oltre e si afferma che chi si contrappone a quel progetto, assume addirittura il ruolo di un “sabotatore” della possibilità per il Paese di uscire dalla crisi; una possibilità che sarebbe offerta dalla disponibilità dell’Europa ad allentare il rigore attuale per chi si impegni a fare riforme. Insomma, chi dissentisse e continuasse ad impegnarsi per una soluzione corretta e corrispondente alle linee di fondo della Costituzione, farebbe il danno del Paese.
Questo significa porre un’alternativa inaccettabile, tra l’adesione al “pensiero dominante” e la libertà di pensiero per i cittadini e di coscienza per i parlamentari, nonostante l’esistenza – nella Carta Costituzionale – di una norma (il famoso art. 67) che esclude vincoli di mandato e, implicitamente, obbedienza a legami di partito.
Un’alternativa del genere è sempre grave e improponibile; ma lo è ancora di più quando si tratta di materia costituzionale, dunque di particolare delicatezza, visto che si tratta del documento su cui si basa la stessa convivenza civile di una nazione.
Ma è opportuno andare ancora più a fondo della questione, per chiedersi se per questa alternativa, che abbiamo definito come improponibile, non manchino addirittura i presupposti di fatto.
Anzitutto, sulla consistenza degli impegni dell’Europa, allo stato attuale, a concedere maggiore flessibilità rispetto al rigore fin qui praticato, c’è veramente da dubitare, perché non c’è nulla di scritto che abbia veramente un significato concretamente positivo, e le voci con cui ci si esprime sono spesso contraddittorie. Alle scarse e generiche “aperture” si contrappone, infatti, il rigido e duro discorso del capogruppo del PPE al Parlamento europeo; le generiche dichiarazioni della Cancelliera tedesca non solo non esprimono impegni reali, ma risentono anche dell’intento di non compromettere l’ascesa, non ancora compiuta, di Junker al ruolo di Presidente della Commissione. Quindi, sotto questo profilo, abbiamo in campo più speranze che certezze, al di là di ogni forma di propaganda e dello stesso impegno del Presidente del Consiglio, a cui auguriamo sinceramente un successo sul fronte europeo, che però ancora non c’è.
In secondo luogo, se anche fosse vero che ci “promettono” più flessibilità in cambio di riforme, bisognerebbe sapere a quali riforme possano essere interessati i nostri interlocutori europei. Viene subito da pensare che difficilmente si potrebbe far riferimento a quella del Senato, perché è assai probabile che – per gli europei – si tratti di un nostro problema istituzionale interno, che ben poco è destinato a spostare sulle tematiche dell’uscita dalla crisi, della crescita, dello sviluppo.
La prova sta nel fatto, che ho già rilevato altre volte, che riforme istituzionali del tipo della nostra, sono state e sono in discussione in altri Paesi, senza che a questo – in Europa – si sia prestata o si presti la benché minima attenzione. E non può che essere così, perché è ovvio che una differenziazione del lavoro delle due Camere, comunque la si voglia realizzare, potrebbe condurre, al più, ad una modesta accelerazione del procedimento legislativo ordinario; tanto meno significativa e rilevante in concreto, ove si consideri che una riforma del Senato non potrebbe entrare in funzione in tempi brevi, ma sarebbe destinata ad essere operativa addirittura fra qualche anno (con la prossima legislatura), a crisi – speriamo – ormai superata.
Ragionando seriamente e cercando di metterci nei panni dell’Europa, c’è da pensare che un interesse per le nostre riforme potrebbe davvero manifestarsi se esse incidessero sull’economia, sul fisco, sul lavoro, sui rapporti sociali, sulla modernizzazione della burocrazia, sul contenimento dei fenomeni mafiosi, sugli investimenti, e così via. Ma proprio tutte queste materie appaiono, allo stato attuale, più enunciate (e neppure tutte) che realizzate e realizzabili a breve scadenza. E nessuno è riuscito, finora, a dimostrare per quali ragioni, una priorità assoluta dovrebbe essere assegnata alla riforma del Senato. Né gioverebbe riferirsi ad un possibile risparmio di spesa, non solo perché non si risparmia modificando le istituzioni previste dalla Costituzione, ma anche perché i “risparmi” sarebbero praticamente inesistenti; e in ogni caso, è stato già proposto da varie parti di “risparmiare” riducendo il numero sia dei Senatori che dei Deputati.
In effetti, c’è un divario assai rilevante tra l’elenco delle priorità, su cui quasi tutti concordano, e quelle che – invece – vengono trattate concretamente come tali .
Accade così, paradossalmente, che le misure di cui non solo si parla, ma ci si occupa più spesso, sono proprio quelle che hanno, in realtà, un ruolo marginale rispetto alle possibilità reali di uscire dalla crisi, di incentivare la crescita e lo sviluppo, di raggiungere forme vere di equità sociale.
In una Repubblica fondata sul lavoro (l’art. 1 della Costituzione è sempre lì a ricordarcelo), accade che i dati ISTAT sono terrificanti, la disoccupazione ha raggiunto livelli inaccettabili per qualunque Paese, il precariato altrettanto; ed è gravissimo il dato secondo il quale moltissimi giovani non cercano neppure più un lavoro, perché hanno perso ogni tipo di fiducia e di speranza.
Sembrerebbe logico, allora, occuparsi di investimenti, di innovazione, di ricerca, di sviluppo e delineare un “piano del lavoro” che non attenesse tanto alle regole ed ai rapporti giuridici, quanto alla possibilità ed alla prospettiva di creare nuovi posti e nuove opportunità di lavoro.
Ma è proprio su questi piani che si è particolarmente carenti; e soprattutto la fretta è molto minore rispetto a quella di “abolire” (o modificare radicalmente) il Senato.
Se vogliamo convincerci di tutto questo, basta collocarsi addirittura nella prospettiva di chi fin da gennaio ha preannunciato un “job act” e poi lo ha concretato in un disegno di legge depositato il 3 aprile in Parlamento. Prescindendo per il momento dai contenuti, limitiamoci ad osservare le date e le prospettive.
Ad oggi, il testo è ancora in sede di Commissione Lavoro, dove è stata appena chiusa la discussione generale e, nella seduta del 3 luglio, il Presidente ha annunciato che a partire dall’8 luglio si comincerà a votare sugli emendamenti, essendo stato il provvedimento calendarizzato per l’Aula subito dopo la conclusione dell’esame del disegno di legge di riforma costituzionale (1429) e del decreto legge sulla competitività (1541) e dunque “presumibilmente a partire da mercoledì 16 luglio”.
Come si vede, si tratta di una previsione un po’ incerta, perché non è affatto detto che per i due provvedimenti che dovrebbero concludersi, i tempi previsti siano sufficienti.
Ma supponiamo che davvero tutto proceda secondo i piani prestabiliti, che quei provvedimenti vengano approvati rapidamente, che si passi all’esame del disegno di legge sul lavoro e lo si concluda altrettanto rapidamente, cioè entro luglio. Ma poi, non essendo stato ancora abolito il bicameralismo, il provvedimento dovrebbe passare all’esame dell’altra Camera. Facciamo l’ipotesi più benevola (e poco realistica), che l’approvazione avvenga entro settembre e quindi la legge possa essere promulgata subito; è a questo punto che occorre ricordare che si tratta di una legge-delega, che fissa i princìpi generali, riservando al Governo il compito di emanare i decreti delegati entro sei mesi. Il che significa che nell’ipotesi più rosea e ardita, questi provvedimenti potrebbero entrare in vigore solo a marzo 2015; e sicuramente gli eventuali effetti positivi sarebbero percepibili solo dopo un ulteriore lasso di tempo. Come “priorità”, non c’è male, anche – ripeto – nell’ipotesi più favorevole.
Questo significa che, nel pensiero dominante, le riforme più urgenti non sembrano quelle che attengono all’economia ed al lavoro. Se si pensa, invece, di anticipare ad ogni costo, la riforma del Senato (e magari, la legge elettorale), vuol dire che si parte da criteri e ragioni diverse da quelle che sarebbero imposte dalla razionalità.
Sotto questo profilo, non è difficile ipotizzare che si tratti soprattutto di un problema di immagine e che alle priorità effettive si anteponga l’intento di portare a casa al più presto il “trofeo” del Senato “riformato” (qualcuno ha parlato, allusivamente, di “scalpo”), per esibirlo in Europa a riprova del decisionismo e della autorevolezza governativa. Noi pensiamo che è giusto aspirare ad una forte credibilità in Europa, ma non a qualunque prezzo.
In più, sarà davvero sensibile a queste scelte, l’Europa? Sarà disponibile a concederci favori per qualcosa che non attiene alle vere questioni economico-sociali? Ne dubito sinceramente.
Si noterà che non ho parlato dei contenuti del Job Act; e l’ho fatto deliberatamente perché, al momento, è il problema meno rilevante, viste le date e le scadenze. Se ne parlerà a tempo debito, limitandoci, per ora, ad osservare che, accanto ad alcune norme che potrebbero essere considerate positive, ce ne sono molte altre che, sul piano della creazione di posti di lavoro e di riduzione della precarietà, significano ben poco e sono tutt’altro che produttive di effetti concreti e di sicura incidenza su un quadro economico-lavorativo assolutamente disastroso. Ma ci sarà tempo e modo per tornare sul tema. Adesso, si voleva soltanto dimostrare l’inconsistenza del vincolo che si vorrebbe imporre alla libertà di giudizio dei parlamentari e dei cittadini.
Non a caso, del resto, si evidenziano non solo incertezze, ma vere e proprie contrarietà all’interno di tutti (o quasi tutti) i gruppi parlamentari. Contrarietà che aumentano quando, assieme alla riforma del Senato, si passa a considerare anche il problema irrisolto della legge elettorale, approvata solo dalla Camera, ma su un testo che molti dichiarano di voler cambiare perché inadeguato a riconoscere i diritti dei cittadini e in particolare quello alla rappresentanza, e in ogni caso contrastante con princìpi affermati dalla stessa Corte Costituzionale.
Queste inquietudini, queste contrarietà, che si vorrebbero contenere ponendo un’alternativa improponibile, dimostrano – invece – che c’è ancora – per fortuna - una sensibilità e un’attenzione per i problemi che sempre una riforma costituzionale deve proporre a chi ha la responsabilità di adottare modifiche; ma dimostrano qualcosa di più, la rivendicazione della propria libertà di fronte a vincoli impropri e la riaffermazione della libertà di coscienza di chi sa che cosa significa essere un parlamentare della Repubblica, secondo i princìpi enunciati dalla Costituzione.
Tutto questo, unito ad una crescente presa di coscienza, da parte di molti cittadini, della reale posta in gioco e della delicatezza dei problemi da risolvere, impone riflessione, saggezza e senso di responsabilità per chi si trova a svolgere un ruolo di particolare importanza in un momento difficile per il Paese. Un ruolo che impone di assumere decisioni consapevoli e coerenti, di stabilire con razionalità quali sono le vere priorità di un Paese che attraversa una grave crisi economica e sociale e cerca di uscirne; e soprattutto impone di mettere mano con estrema cura e col massimo rispetto ad un documento importante – anzi fondamentale – qual’è la Costituzione, che certamente può subire modifiche, ma nei tempi, nei modi e con i contenuti che rispondano alle reali esigenze del Paese e siano coerenti con i valori e le linee di fondo che essa esprime.

martedì 8 luglio 2014

SUL CIPRESSO PIU' ALTO . TOSCA MARTINI E LE ALTRE.

L'associazione culturale Nottola di Minerva, in collaborazione con Regione Toscana, ISRT, Liceo Scientifico Rodolico di Firenze e Fondazione CDSE presenta una serata dedicata alla resistenza al femminile e alla spettacolare liberazione, il 9 luglio 1944, delle donne imprigionate nel carcere di Santa Verdiana. 
Caffè letterario 'Le Murate' di Firenze, giovedì 10 luglio, ore 21.00: presentazione del racconto di scrittura collettiva "Fuori tutte" e alle 22.00 spettacolo, a cura di Altroteatro, "Sul cipresso più alto. Tosca Martini e le altre". 

Ingresso gratuito.

mercoledì 2 luglio 2014

Smuraglia: niente azzardi sulle riforme costituzionali

Dal sito ANPI Nazionale

In questa settimana dovrebbe cominciare la discussione sul testo e sugli emendamenti della riforma del Senato.
Mi piacerebbe che si trattasse di una discussione serena, approfondita e libera, come richiesto dalla delicatezza della materia (costituzionale).
Ma non so se sarà così, perché – secondo alcuni – occorre applicare una rigida disciplina di partito (e dove finirebbe l’art. 67 della Costituzione?), per cui si dovrebbe solo prendere atto di quanto deciso negli incontri “esterni” tra esponenti del PD, di Forza Italia e della Lega.
È sempre lecito sperare, tuttavia, che non tanto e solo prevalga il buon senso, quanto che venga riconosciuta quell’esigenza di rispetto dei valori costituzionali e di attenta considerazione della delicatezza della posta in gioco, su cui mi sono già più volte soffermato.
In realtà, a forza di incontri, sembrano essere stati concordati aggiustamenti, che – tuttavia - non mutano la sostanza e non rendono accettabile la riforma del Senato così come proposta.
Noi continuiamo a ritenere che ci siano alcuni aspetti fondamentali, da cui non è consentito allontanarsi:
- l’opportunità (la necessità) di differenziare il lavoro delle due Camere;
- l’esigenza di mantenere comunque un valido sistema bicamerale, rinnovato, ma sempre con due Camere che hanno uguale prestigio;
- l’esigenza di risolvere, prima di tutto, alcuni problemi fondamentali: la necessità di mantenere al Senato il connotato di autorevolezza di una Camera elettiva; la necessità di attribuire al Senato alcune funzioni fondamentali (a titolo esemplificativo ,la partecipazione effettiva alla formazione delle leggi in materia costituzionale ed elettorale, in tema di trattati e rapporti internazionali, in tema di principi generali in materia di autonomie ed in tema di diritti fondamentali); l’utilità di individuare i modi più opportuni per assicurare la presenza della voce delle autonomie nonché quella di specifiche competenze, culturali e scientifiche; l’attribuzione al Senato di seri e severi poteri di controllo sull’esecutivo, sull’amministrazione pubblica e sulla concreta applicazione ed efficacia delle leggi approvate.
Se si realizzassero questi obiettivi, come più volte abbiamo detto, si otterrebbe il risultato di eliminare il “bicameralismo perfetto” (se non altro per l’attribuzione alla Camera della parte più rilevante del potere legislativo e per l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia); e nel contempo si terrebbe fermo quel sistema di garanzie, di pesi e contrappesi che, con intelligenza e sensibilità costituzionale, fu costruito dal legislatore costituente e che deve essere mantenuto.
Se poi si procedesse all’unificazione di alcuni servizi delle due Camere e alla equa diminuzione del numero dei parlamentari, sia della Camera che del Senato, si avrebbe – alla fine – una soluzione complessivamente ragionevole, comprensibile per i cittadini e fedele, nello spirito, alla Costituzione, alla nostra tradizione ed alle esperienze realizzate in questo dopoguerra.
Capisco che una soluzione come quella che ho prospettato (a prescindere dagli aspetti particolari, sui quali è giusto che si intrattenga il Parlamento) può sembrare troppo razionale per i tempi che corrono. Ma forse, con un po’ di buona volontà, si potrebbe riuscire a capire che in materia costituzionale servono le modifiche, quando l’esperienza le suggerisce, ma non gli spericolati azzardi, solo per compiacere un certo tipo di populismo (francamente, un po’ arretrato).
È per questo che mi rivolgo soprattutto ai Senatori, perché riflettano bene su quello che fanno e faranno, rendendosi conto che l’art. 67 della Costituzione è stato scritto per renderli liberi; ed a questa libertà, chi ricopre cariche elettive di tanto rilievo, dovrebbe tenerci come alla propria vita, perché essa costituisce la ragione stessa per la quale si è stati eletti e la ragione per cui (art. 54 della Costituzione) bisogna agire – nell’esercizio della funzione – con “disciplina e onore”.
So bene che adesso viene addotto un altro argomento, che dovrebbe essere addirittura decisivo, nelle intenzioni di chi lo usa, ma non è fondato.
Si dice che avendo l’Europa permesso un’apertura verso la flessibilità, adesso bisogna meritarla facendo “le riforme”.
A prescindere dal fatto che a me quest’apertura è sembrata più un segnale di buona volontà che non un impegno, bisogna intendersi su che cosa significa “fare le riforme” di cui l’Europa sarebbe in attesa.
Il Presidente del Consiglio dice che, prima di tutto, c’è da fare, e rapidamente, la riforma del Senato.

Mi permetto di dissentire e di porre qualche domanda indiscreta. Ma davvero c’è chi pensa che l’Europa sia particolarmente interessata alla riforma del Senato? Io penso di no e credo, anzi, che gliene importi (e forse ne sappia, addirittura) ben poco. In Europa ci sono diversi Paesi che hanno apportato modifiche al loro sistema parlamentare; e questo è avvenuto nel disinteresse generale degli altri Paesi, che lo hanno (giustamente) ritenuto un problema interno. Per lo più, comunque, è stato confermato un sistema di bicameralismo “differenziato” nelle funzioni; ed anche di questo non si è accorto né entusiasmato nessuno.
Ci sono studi e processi di revisione sulle istituzioni parlamentari, in corso, in Belgio, Irlanda, Spagna e Regno Unito. Ma nessuno, in Europa, è apparso interessato a questi processi, e tanto meno li si è collegati alla tematica del rigore, dell’austerità e della flessibilità.
Più in generale, è ovvio che il Paese che volesse dare buona prova di sé, per ottenere qualcosa sul piano di una maggiore elasticità delle regole economiche e finanziarie, dovrebbe dimostrare di avere modificato la sua burocrazia, i suoi livelli di corruzione, la presenza della criminalità organizzata e di avere in corso piani concreti di rilancio delle attività produttive, del lavoro, dei consumi.
Un imprenditore che fosse interessato ad investire in Italia non chiederebbe, penso, se abbiamo o meno il bicameralismo perfetto, ma domanderebbe meno vincoli burocratici, meno lungaggini, meno balzelli, più sicurezza nei confronti della mafia e meno concorrenza sleale fondata sulla corruzione e sui comportamenti di coloro che non rispettano le regole.
Dovremmo, dunque, rassicurare l’Europa su questi piani e su questi punti essenziali, piuttosto che pensare ad una riforma istituzionale, che può essere utile ma non così urgente quanto l’abbattimento del deficit, la crescita, il rilancio dell’economia, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Se davvero l’Europa si convincerà e adotterà comportamenti concreti di maggior elasticità, avrà il diritto di chiederci di dimostrare di aver rassicurato i potenziali investitori e di aver dato reali speranze (se non addirittura certezze) ai milioni di giovani in cerca di lavoro.
Su questi aspetti, bisogna dire la verità e parlare chiaro, spiegando bene ai cittadini di che cosa si tratta; a meno che si voglia sostenere che togliendo di mezzo lo scoglio del Senato, si assicurerà la governabilità e questo rassicurerà i Paesi che ci guardano ancora con sospetto, come (nonostante tutto) la Germania. Ma allora bisognerebbe ricordarsi che intanto, per avere la Camera dei deputati in mano, bisogna vincere (e c’è ancora da risolvere il problema di una legge elettorale avversata da molti) e in secondo luogo che la “stabilità” politica non è tutto, perché c’è sempre il problema degli assetti e degli equilibri fra gli organi istituzionali, e prima ancora c’è il problema della rappresentanza, che deve essere garantita ai cittadini e non imposta nelle forme preferite da chi vuole governare indisturbato.
Insomma, consiglierei a tutti la formula di manzoniana memoria (“adelante, Pedro, conjuicio”) e poi di far prima di tutto scelte e assumere decisioni che vadano nella direzione dell’equità sociale, dell’uguaglianza e della libertà (anche dal bisogno).
Un ultimo richiamo e non certo di minore importanza: si tolga di mezzo, se verrà davvero formalizzata, la norma che eleverebbe il numero delle firme finora richieste per l’iniziativa legislativa popolare. Basta rifletterci un momento per convincersi che, se è vero che il Paese ha bisogno di più democrazia – come molti ritengono - il modo migliore non è quello di creare ostacoli perfino ad un istituto reso innocuo come l’iniziativa popolare; tanto più che questa novità si inserirebbe in un contesto in cui c’è già una legge elettorale (nel testo approvato alla Camera) che di democratico han ben poco e una proposta diretta a modificare drasticamente (se non a, praticamente, abolire) un organo costituzionale di rappresentanza dei cittadini).
Davvero avremmo ancor più ragione, se si insistesse sulle linee che si stanno seguendo, di parlare, come abbiamo già fatto, di una vera “questione democratica”.

Carlo Smuraglia

Presidente Nazionale ANPI