Dal sito ANPI Nazionale
In questa settimana dovrebbe cominciare la discussione sul testo e sugli emendamenti della riforma del Senato.
In questa settimana dovrebbe cominciare la discussione sul testo e sugli emendamenti della riforma del Senato.
Mi piacerebbe che si trattasse di una discussione serena,
approfondita e libera, come richiesto dalla delicatezza della materia
(costituzionale).
Ma non so se sarà così, perché – secondo alcuni – occorre
applicare una rigida disciplina di partito (e dove finirebbe l’art. 67 della
Costituzione?), per cui si dovrebbe solo prendere atto di quanto deciso negli
incontri “esterni” tra esponenti del PD, di Forza Italia e della Lega.
È sempre lecito sperare, tuttavia, che non tanto e solo
prevalga il buon senso, quanto che venga riconosciuta quell’esigenza di
rispetto dei valori costituzionali e di attenta considerazione della
delicatezza della posta in gioco, su cui mi sono già più volte soffermato.
In realtà, a forza di incontri, sembrano essere stati
concordati aggiustamenti, che – tuttavia - non mutano la sostanza e non rendono
accettabile la riforma del Senato così come proposta.
Noi continuiamo a ritenere che ci siano alcuni aspetti
fondamentali, da cui non è consentito allontanarsi:
- l’opportunità (la necessità) di differenziare il lavoro
delle due Camere;
- l’esigenza di mantenere comunque un valido sistema
bicamerale, rinnovato, ma sempre con due Camere che hanno uguale prestigio;
- l’esigenza di risolvere, prima di tutto, alcuni problemi
fondamentali: la necessità di mantenere al Senato il connotato di autorevolezza
di una Camera elettiva; la necessità di attribuire al Senato alcune funzioni
fondamentali (a titolo esemplificativo ,la partecipazione effettiva alla
formazione delle leggi in materia costituzionale ed elettorale, in tema di
trattati e rapporti internazionali, in tema di principi generali in materia di
autonomie ed in tema di diritti fondamentali); l’utilità di individuare i modi
più opportuni per assicurare la presenza della voce delle autonomie nonché
quella di specifiche competenze, culturali e scientifiche; l’attribuzione al
Senato di seri e severi poteri di controllo sull’esecutivo, sull’amministrazione
pubblica e sulla concreta applicazione ed efficacia delle leggi approvate.
Se si realizzassero questi obiettivi, come più volte abbiamo
detto, si otterrebbe il risultato di eliminare il “bicameralismo perfetto” (se
non altro per l’attribuzione alla Camera della parte più rilevante del potere
legislativo e per l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia); e nel
contempo si terrebbe fermo quel sistema di garanzie, di pesi e contrappesi che,
con intelligenza e sensibilità costituzionale, fu costruito dal legislatore
costituente e che deve essere mantenuto.
Se poi si procedesse all’unificazione di alcuni servizi
delle due Camere e alla equa diminuzione del numero dei parlamentari, sia della
Camera che del Senato, si avrebbe – alla fine – una soluzione complessivamente
ragionevole, comprensibile per i cittadini e fedele, nello spirito, alla
Costituzione, alla nostra tradizione ed alle esperienze realizzate in questo
dopoguerra.
Capisco che una soluzione come quella che ho prospettato (a
prescindere dagli aspetti particolari, sui quali è giusto che si intrattenga il
Parlamento) può sembrare troppo razionale per i tempi che corrono. Ma forse,
con un po’ di buona volontà, si potrebbe riuscire a capire che in materia
costituzionale servono le modifiche, quando l’esperienza le suggerisce, ma non
gli spericolati azzardi, solo per compiacere un certo tipo di populismo
(francamente, un po’ arretrato).
È per questo che mi rivolgo soprattutto ai Senatori, perché
riflettano bene su quello che fanno e faranno, rendendosi conto che l’art. 67
della Costituzione è stato scritto per renderli liberi; ed a questa libertà,
chi ricopre cariche elettive di tanto rilievo, dovrebbe tenerci come alla
propria vita, perché essa costituisce la ragione stessa per la quale si è stati
eletti e la ragione per cui (art. 54 della Costituzione) bisogna agire –
nell’esercizio della funzione – con “disciplina e onore”.
So bene che adesso viene addotto un altro argomento, che
dovrebbe essere addirittura decisivo, nelle intenzioni di chi lo usa, ma non è
fondato.
Si dice che avendo l’Europa permesso un’apertura verso la
flessibilità, adesso bisogna meritarla facendo “le riforme”.
A prescindere dal fatto che a me quest’apertura è sembrata
più un segnale di buona volontà che non un impegno, bisogna intendersi su che
cosa significa “fare le riforme” di cui l’Europa sarebbe in attesa.
Il Presidente del Consiglio dice che, prima di tutto, c’è da
fare, e rapidamente, la riforma del Senato.
Mi permetto di dissentire e di porre qualche domanda
indiscreta. Ma davvero c’è chi pensa che l’Europa sia particolarmente
interessata alla riforma del Senato? Io penso di no e credo, anzi, che gliene
importi (e forse ne sappia, addirittura) ben poco. In Europa ci sono diversi
Paesi che hanno apportato modifiche al loro sistema parlamentare; e questo è
avvenuto nel disinteresse generale degli altri Paesi, che lo hanno
(giustamente) ritenuto un problema interno. Per lo più, comunque, è stato
confermato un sistema di bicameralismo “differenziato” nelle funzioni; ed anche
di questo non si è accorto né entusiasmato nessuno.
Ci sono studi e processi di revisione sulle istituzioni
parlamentari, in corso, in Belgio, Irlanda, Spagna e Regno Unito. Ma nessuno,
in Europa, è apparso interessato a questi processi, e tanto meno li si è
collegati alla tematica del rigore, dell’austerità e della flessibilità.
Più in generale, è ovvio che il Paese che volesse dare buona
prova di sé, per ottenere qualcosa sul piano di una maggiore elasticità delle
regole economiche e finanziarie, dovrebbe dimostrare di avere modificato la sua
burocrazia, i suoi livelli di corruzione, la presenza della criminalità
organizzata e di avere in corso piani concreti di rilancio delle attività
produttive, del lavoro, dei consumi.
Un imprenditore che fosse interessato ad investire in Italia
non chiederebbe, penso, se abbiamo o meno il bicameralismo perfetto, ma
domanderebbe meno vincoli burocratici, meno lungaggini, meno balzelli, più
sicurezza nei confronti della mafia e meno concorrenza sleale fondata sulla
corruzione e sui comportamenti di coloro che non rispettano le regole.
Dovremmo, dunque, rassicurare l’Europa su questi piani e su
questi punti essenziali, piuttosto che pensare ad una riforma istituzionale,
che può essere utile ma non così urgente quanto l’abbattimento del deficit, la
crescita, il rilancio dell’economia, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Se davvero l’Europa si convincerà e adotterà comportamenti
concreti di maggior elasticità, avrà il diritto di chiederci di dimostrare di
aver rassicurato i potenziali investitori e di aver dato reali speranze (se non
addirittura certezze) ai milioni di giovani in cerca di lavoro.
Su questi aspetti, bisogna dire la verità e parlare chiaro,
spiegando bene ai cittadini di che cosa si tratta; a meno che si voglia
sostenere che togliendo di mezzo lo scoglio del Senato, si assicurerà la
governabilità e questo rassicurerà i Paesi che ci guardano ancora con sospetto,
come (nonostante tutto) la Germania. Ma allora bisognerebbe ricordarsi che
intanto, per avere la Camera dei deputati in mano, bisogna vincere (e c’è ancora
da risolvere il problema di una legge elettorale avversata da molti) e in
secondo luogo che la “stabilità” politica non è tutto, perché c’è sempre il
problema degli assetti e degli equilibri fra gli organi istituzionali, e prima
ancora c’è il problema della rappresentanza, che deve essere garantita ai
cittadini e non imposta nelle forme preferite da chi vuole governare
indisturbato.
Insomma, consiglierei a tutti la formula di manzoniana
memoria (“adelante, Pedro, conjuicio”) e poi di far prima di tutto scelte e
assumere decisioni che vadano nella direzione dell’equità sociale,
dell’uguaglianza e della libertà (anche dal bisogno).
Un ultimo richiamo e non certo di minore importanza: si
tolga di mezzo, se verrà davvero formalizzata, la norma che eleverebbe il
numero delle firme finora richieste per l’iniziativa legislativa popolare.
Basta rifletterci un momento per convincersi che, se è vero che il Paese ha
bisogno di più democrazia – come molti ritengono - il modo migliore non è
quello di creare ostacoli perfino ad un istituto reso innocuo come l’iniziativa
popolare; tanto più che questa novità si inserirebbe in un contesto in cui c’è
già una legge elettorale (nel testo approvato alla Camera) che di democratico
han ben poco e una proposta diretta a modificare drasticamente (se non a,
praticamente, abolire) un organo costituzionale di rappresentanza dei
cittadini).
Davvero avremmo ancor più ragione, se si insistesse sulle
linee che si stanno seguendo, di parlare, come abbiamo già fatto, di una vera
“questione democratica”.
Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale
ANPI